Biografia

1952 – San Giorgio

Ernesto Ferrari nasce in Alessandria il 14 aprile 1894, è il secondogenito di Paolo Agostino Ferrari e Caterina Ferrari, cugini di primo grado, viene battezzato in Santa Maria di Castello, storico edificio ecclesiastico situato poco distante dal quartiere popolare nel quale risiedeva.

Nel descrivere la sua infanzia scrive:

“La mia infanzia, nel suo complesso, fu pressochè uguale a quelle del mio tempo e luogo di nascita, ma la mia particolare conformazione fisica e psichica fin dall’inizio ebbe un particolare carattere che mi ha poi costantemente seguito per tutta l’esistenza. Avevo già nel sangue lo spirito di avventura che non mi dava mai tregua e, quando potevo, scappavo di casa, dall’asilo e dalla scuola, insofferente per natura di ogni status quo, sempre pronto all’iniziativa ed all’avventura: ne ricavai un’adolescenza irrequieta, irriflessiva, sognatrice, poetica ed avventurosa, con tutte le sue spinose conseguenze.”

A riprova di questo temperamento avventuroso, si racconta che, all’età di sei anni, affascinato dall’idea di vedere il mare, Ernesto decise di recarvisi e, per farlo, salì sul primo treno che lo potesse condurre verso il suo sogno. I genitori, disperati, lo cercarono per giorni e, temendo il peggio, fecero addirittura dragare il fiume, paventando che vi fosse caduto durante uno dei bagni che amava fare vicino al ponte della Cittadella.

Era un bambino intelligente, curioso, sognatore, scrutava la natura per coglierne l’essenza. Amava disegnare e i suoi disegni mostravano una grande attitudine artistica. Questo talento appariva, agli occhi dei genitori, oscuro e difficile da gestire e, viste le modestissime condizioni economiche, assecondare un tale dono, era impossibile.

Nel 1905, a soli undici anni, Ernesto viene mandato a bottega ed è lui stesso ad elencare le botteghe ed officine d’arte fabbrile, dove si svolse e si sviluppò la sua prima attività di apprendista

Questi primi anni sono dedicati all’apprendimento, ma nasce nel giovane la consapevolezza che, attraverso la manipolazione del ferro, l’energia che lo pervadeva avrebbe potuto trovare modo di espressione.

Nel 1915 la prima guerra mondiale imperversa e, come i suoi coetanei, Ernesto è al fronte; qui conosce il pittore Pietro Morando al quale rimarrà legato da profonda amicizia, per tutta la vita.

Nel 1919, congedato, rientra a casa e ritorna a lavorare come fucinatore, dapprima presso le Officine ferroviarie a Savigliano, successivamente, salito di categoria, presso la ditta Giacomo Martini di Borgoratto.

Gli anni che vanno dal 1922 al 1934 sono, dallo stesso artista descritti come:

“periodo di tempo duro e travagliato che diede origine alla formazione tecnica ed artistica, a tutta la mia nascente personalità”

Risalenti a quell’epoca sono le prime opere in ferro battuto, prevalentemente stauette, piatti sbalzati, oggetti di arredo, commissionati dalle famiglie borghesi del luogo. Ogni manufatto mette un luce un vigoroso potere creativo associato a valenze artistiche sorprendenti.

Ernesto ha uno spirito indomito che non può essere al servizio di un padrone e, perseguendo l’insofferenza verso il lavoro dipendente, sempre a Borgoratto, apre una sua officina.

Qui, nel 1922, per un lungo anno, dà vita al suo primo capolavoro: una cancellata commissionatagli dal Commendatore Mario Ravizza per la sua villa, ubicata nel concentrico di Borgoratto. Un sapiente equilibrio tra tralci di rovere, fiori di rosa, animali e un grande serpente a guardia del cancello. Il risultato è incantevole, inconsueto, geniale.

Nello stesso anno sposa Maria Maddalena Ricci dalla quale avrà tre figli: Ines (1923), Mario (1925) che lo affincherà nel suo percorso artistico e Amelia (1928).

In quegli anni produce molti oggetti d’arte e, sempre per il Commendator Ravizza, un tripode da pozzo, che in un certo qual modo seguirà il suo ideatore.

Nel 1932, dopo dieci anni, realizza, per la tomba dell’ingegnere Ivaldi, un cancello composto da otto formelle forgiate e sbalzate a mano che ritraggono la via crucis. Per il potere espressivo e la qualità tecnica viene considerato un altro capolavoro dell’arte fabbrile piemontese.

Nel 1934 l’esperienza lavorativa a Borgoratto ha termine e l’artista entra in quella che è ricordata come “l’impresa Monterosso”. Sul colle acquese, così denominato, negli anni ’20, l’illustre e facoltosa famiglia Ottolenghi aveva fatto edificare un sontuosa residenza, opera del famoso architetto Marcello Piacentini (che riprogettò, inoltre, il mausoleo di famiglia). Alla “corte” degli Ottolenghi, per assecondare l’amore per l’arte del conte Arturo e della moglie Herta Wedekind, furono accolti grandi artisti: Arturo Martini, Pietro Porcinai, Vladimir Todorowsky, Giuseppe Vaccaro, Ferruccio Ferrazzi e molti altri.

La fama di Ernesto raggiunse Monterosso e il 4 dicembre 1934, il conte Arturo e “l’artiere del ferro” siglarono un contratto annuale rinnovabile che includeva, oltre un compenso di 900 Lire mensili, una casetta, parte in muratura, parte in legno di sua proprietà con l’annesso piccolo frutteto ed i primi quattro filari di viti vicini alla casa; in cambio Ernesto avrebbe dovuto lasciare di proprietà del Signor Ottolenghi tutti i lavori e le opere che eseguirà, sia che si tratti di riproduzioni in metallo delle opere di Herta Ottolenghi Wedekind, sia che si tratti di sue creazioni.

L’operato al servizio della famiglia Ottolenghi impegnò Ernesto per il resto della vita, così scrive dopo aver siglato il contratto:

“Da questo punto e tempo ebbe origine un concreto e razionale inizio di una lunga faticosa ma onorata carriera artistica destinata a mettermi in contatto con parecchie altre distinte persone assai sensibili al fascino dell’arte. Fu allora che incontrai i più grandi artisti di quel tempo da Pietro Morando a Carlo Carrà da L. Bistolfi a Arturo Martini da Piacentini a Rapisardi da C. Bozzetti a Mazzucotelli di Milano”

Dopo la guerra, nel 1945, fu affiancato dal figlio Mario che dimostrò di essere un degno allievo e collaboratore.

Le opere prodotte, di alto livello, ancora oggi impreziosiscono la villa e spaziano dalle cancellate, ricche di dettagli raffinati e curiosi quali il draghetto che nasconde il meccanismo di scorrimento del cancello d’ingresso, agli splendidi portoni della cantina e del garage, dove una sequenza di topolini fa capolino quando si aziona la serratura, fino al portone del mausoleo. Maestoso schermo realizzato con due tonnellate di ferro, nickel e rame, cinque metri di altezza per due di larghezza a protezione del sacello affrescato da Ferruccio Ferrazzi e decorato da splendidi mosaici. Due imponenti battenti ornati da oltre trecento borchie di differente foggia, sorretti da cardini in nickel, il tutto sapientemente realizzato e montato così da consentirne apertura e chiusura del portone con la semplice pressione di un dito. Spalancate le ante ci si trova di fronte al vero capolavoro: la serratura. Definirla tale è riduttivo, è un raffinato meccanismo degno dell’intelletto di Leonardo e della capacità tecnica di un abile orologiaio, un preciso sistema di chiavistelli e leve la cui efficienza, a dispetto del trascorrere del tempo, è sconcertante. Con quest’opera Ernesto è andato oltre l’arte, ha tradotto in materia quell’ingegno che lo ha sempre contraddistinto, ha saputo vestire l’intelletto di grazia e di armonia dimostrando di non essere solo un eccellente esecutore, bensì un artista dotato di un acume fuori dal comune. Il suono che il meccanismo sussurra quando viene azionato è musica, è il canto della musa che ha accompagno Ernesto in tutta la sua vita. Lo spettacolare marchingegno è timidamente schermato da due valve rilucenti, finemente cesellate che si aprono al visitatore come uno scrigno.

L’elaborazione di questo capolavoro, completamente assemblato a mano con un precisione maniacale ha richiesto cinque anni di duro lavoro (dal 1951 al 1956). Ernesto è stato affiancato dal figlio Mario, che ha realizzato le borchie che adornano il portale.

Il mausoleo ha ricevuto il dono supremo ma ogni angolo della villa è popolato dalle presenze di Ferrari e per raccontare una storia singolare, vale la pena di citare il tripode che sormonta il pozzo. Un giorno Astolfo Ottolenghi, figlio di Arturo, al ritorno dal suo antiquario di fiducia, dove aveva selezionato un manufatto in ferro per allestire il suo pozzo, si rivolge a Ernesto dicendo:

“Finalmente ho trovato per il mio pozzo quello che cercavo e che tu non volevi farmi, esiste qualcun’altro bravo come te !”

l’altro sogghignando risponde

“Nessuna novità su questo tripode, signor Ottolenghi, l’ho fatto io !”

Il tripode, ritornato nelle mani del suo creatore, viene installato e completato con piedini, carrucola e un’eterea rete di protezione popolata da ranocchie, pesci ed erbe palustri, aggraziata come una ragnatela ma solida come un chiusino.

Nel 1950 escono dalla fucina di Monterosso tre importanti sculture destinate ad altrettante eminenti personalità dell’epoca: Papa Pio XII, Luigi Einaudi, Presidente della Repubblica e Alcide De Gasperi, Capo del Governo. Le opere erano intitolate rispettivamente: “Cristo crocifisso”, “Cerbiatti” e “Cristo morente”.

Nel ’52 Ernesto dà vita ad un altro capolavoro: “San Giorgio e il drago” dedicato al Santo Patrono di Alessandria.

Nel 1957 muore la moglie e per il maestro inizia un doloroso periodo di lutto, nello stesso anno viene nominato Cavaliere al merito della Repubblica.

Ernesto, nella sua arte, maestosa e onirica al tempo stesso, ha sempre creduto nella materia e nella forza che l’uomo trasmette al suo lavoro. In sintonia con questa convinzione ha sempre privilegiato un rapporto diretto con il ferro, senza intermediari, nessuna macchina, solo gli attrezzi da lui prodotti, ha sempre rifiutato la saldatura ossidrica, componendo le sue opere attraverso l’incastro, la “bollitura a fuoco”, che consiste nel rendere incandescenti i due pezzi da connettere, nell’accostarli facendoli combaciare, per poi martellarli fino a fonderli in un’unica materia.

“Qui il lavoro non è un castigo” aveva scritto sulla cappa della forgia, ad indicare l’amore per la sua arte.

Ernesto muore il 3 luglio 1973.